Genio e sregolatezza in un fisico minuto, spinto dall’incoscienza dei vent’anni. Biondo, come ogni buon svedese è descritto nel più tipico dei cliché. Lennart Skoglund arriva a Milano nel 1950. Per tutti diventa presto “Nacka”, come il quartiere di Stoccolma da cui proviene. È uno di quei giocatori che può permettersi di dare del tu al pallone, in una relazione caratterizzata da una sintonia perfetta. La stessa che ha con il compagno di squadra e amico, Benito Lorenzi. Lui, Lorenzi e István Nyers formano un trio d’attacco esplosivo nella mitica Inter degli anni ’50.
Nel 1959 gioca la sua ultima partita in nerazzurro contro il Bari. Si spegne troppo giovane, ad appena 45 anni, nel 1975, ma Milano, soprattutto quella nerazzurra, non l’ha mai dimenticato. C’è un bar in via Lorenteggio. Porta il suo nome. È stato aperto dai figli Evert e Giorgio. Al suo interno campeggia una gigantografia del padre, in bianco e nero, a ricordare a tutti chi era Lennart “Nacka” Skoglund.
Sono gli anni della Milano da bere, del desiderio di lasciarsi alle spalle la Guerra e godersi appieno la vita. Un desiderio che può trascinare in tentazioni pericolose, soprattutto per caratteri fragili come quello di Nacka. Ma se il lato oscuro esiste, di certo non si vede in campo. Skoglund, che in maglia nerazzurra vince due scudetti consecutivi nel ’53 e nel ’54, è descritto dalle cronache dell’epoca come un calciatore dotato di gran senso della posizione e dribbling, di piedi “castigatori” al servizio di un’eccellente tempestività. Gli stessi piedi che pare sia capace di utilizzare con maestria per una particolare scommessa che non riesce mai a perdere. Si racconta, infatti, che fosse in grado di palleggiare con una moneta da 100 lire – prima col tacco destro, poi col sinistro – e farla ricadere nel proprio taschino.