Quando cresci nella Rocinha, una delle favela più pericolose e malfamate del Brasile, il talento può salvarti la vita. E Adriano, che a Milano diventa per tutti l’Imperatore, di talento ne ha da vendere. È potente, veloce, fisico, ma anche incredibilmente passionale. Una caratteristica, questa, che si può rivelare un’arma a doppio taglio. La sua emotività si nutre dell’affetto dei tifosi, della stima dei compagni, ma quando è in campo l’apparente fragilità viene spazzata via dalla potenza del mancino, dalla forza della sua progressione. Ne sanno qualcosa gli undici uomini di Luciano Spalletti che in un’Inter-Udinese della stagione 2004-2005 vengono ridicolizzati per cinquanta metri di campo, irrisi, saltati, seminati, prima dell’inevitabile sentenza dell’Imperatore che, a soli 19 anni, conquistò Madrid.
Succede, però, qualcosa di più. Calcio di punizione per l’Inter dal limite dell’area. Arriva l’ordine di Cuper dalla panchina: fatela tirare al ragazzino. Un regalo d’esordio su un palcoscenico di prestigio? Forse sì, forse no. Qualcosa, quel diciannovenne che sorride sempre, l’aveva già fatta vedere, in allenamento, ma neanche i suoi compagni possono prevedere ciò che sta per accadere. Quasi 180 chilometri orari di pura potenza mancina si abbattono appena sotto la traversa. Adriano Leite Ribeiro si presenta ai nuovi tifosi così, facendo dimenticare, anche se solo per un attimo, un altro brasiliano che qualcosina in maglia nerazzura l’aveva già fatta vedere.
È il 14 agosto del 2001 al Santiago Bernabéu. In campo si sta trascinando stancamente alla fine una delle tante, se pur di prestigio, amichevoli estive di precampionato. Il punteggio tra Real Madrid e Inter è fermo sull’1 a 1, quando a cinque minuti dalla fine entra un ragazzino brasiliano di 19 anni. Una sostituzione che rompe la monotonia come un rumore improvviso, che dura lo spazio di pochi secondi, giusto il tempo di voltarsi di scatto per poi tornare alle proprie faccende.