Alpino, milanese, principe del foro. Nel battaglione L’Aquila, che partì per la Russia nel 1942, vi erano 53 ufficiali; sette mesi dopo, soltanto in tre riuscirono a fare ritorno in Italia. Uno di questi era Giuseppe Prisco, di lì in poi “Peppino”, che non mancò mai un’adunata alpina. Difficile spiazzarlo, impossibile, anche per un tifoso avversario, non apprezzarne l’estro. A partire dai cugini milanisti: “Io sono contro ogni forma di razzismo, ma mia figlia in sposa ad un giocatore del Milan non la darei mai”.
Indimenticabile la battaglia legale grazie alla quale l’Inter approda ai quarti di Coppa Uefa nel 1971. I nerazzurri giocano in Germania contro il Borussia Mönchengladbach e l’avventura in Europa sembra giunta al capolinea. Boninsegna, però, nel corso del primo tempo, viene colpito da una lattina lanciata dagli spalti. Qui scende in campo l’avvocato Prisco, che riesce a ribaltare la sentenza del campo ottenendo la ripetizione della partita dalla quale, questa volta, l’Inter uscirà vincitrice.
Avvocato, dirigente sportivo, ma soprattutto grande tifoso dell’Inter. Tutto questo e molto di più è stato Peppino Prisco, il cui nome è legato in maniera indissolubile ai colori nerazzurri. In un mondo, come quello del calcio, caratterizzato da frasi fatte, dalle certezze del politicamente corretto, Prisco ha saputo squarciare questo velo di ipocrisia con uno stile tagliente, brillante, incapace di nascondere una passione che emergeva puntuale, tutte le volte, con frasi divenute celebri e che ancora oggi fanno di lui un personaggio simbolo dell’Inter. Come quando dichiara “se stringo la mano ad un milanista mi lavo le mani, se stringo la mano ad uno juventino mi conto le dita”.