Anche per questo, durante le sue stagioni interiste, l’allenatore Roberto Mancini ne fa il faro del centrocampo e il pubblico di San Siro lo celebra, invocando i suoi tocchi di classe. Resterà a Milano solo due anni, prima di tornare all’Estudiantes, la squadra del suo cuore e della sua famiglia: in tempo per vincere i primi trofei dopo un lungo digiuno e inaugurare un’epoca di grandi vittorie nerazzurre. Per rompere il sortilegio, forse, servivano le magie di una strega.
Giocate così fanno onore al soprannome di Verón: la “Brujita”, che in spagnolo significa “streghetta” e che Juan Sebastián eredita dal padre Juan Ramón, come lui centrocampista di lotta e governo. Dai suoi piedi partono veri e propri incantesimi, parabole cariche di effetto in cui il pallone sembra guidato da un filo invisibile nel cielo. Verón taglia il campo con lanci millimetrici, innesca gli attaccanti con filtranti visionari e spesso calcia in porta anche da posizioni all’apparenza impossibili. Con la maglia della Lazio gli riesce persino un gol “olimpico”, direttamente dal corner; con quella dell’Inter non si fa mancare sassate da fuori area che sorprendono i portieri. A un piede educatissimo, la “Brujita” abbina grinta e carattere: non lo intimidiscono i contrasti duri né i faccia a faccia con gli avversari più aggressivi. In campo non tira mai indietro la gamba e si batte senza tregua per i colori che indossa.
La Supercoppa italiana del 2005 è una partita tesa e tirata: Juventus e Inter si equivalgono e al 90esimo minuto il risultato è ancora di 0-0. Nel primo tempo supplementare, con i nerazzurri in sofferenza, serve un lampo per cambiare l’inerzia del match. Juan Sebastián Verón, allora, tira fuori un colpo da biliardo: è un destro affilato che prende in controtempo il portiere e regala la vittoria ai suoi.